PROPRIETARI DI UN VUOTO TANGIBILE, MA NON TRACCIABILE. IL NULLA

Mi manca non poter camminare nel posto in cui sono cresciuta, una villetta che avevo rinominato, assieme a mio padre, “le palme” e di cui il nome persiste anche se, di palme, non ce n’è più nemmeno una. La tradizione vuole che ogni ansia, paura o momento di noia perdesse i suoi connotati anche solo nell’iniziare a dirigermi in quel posto. Era e tornerà ad essere la mia soluzione all’apparentemente irrisolvibile che, invece, si dissolveva come se non fosse mai stato degno di farmici perdere il sonno. Ora ne percepisco una sostanziale carenza. 

Ci avevano detto che la fortuna della nostra generazione era la libertà e io mi sento un po’ presa in giro. Manca il poter autodiagnosticare un antidoto per tutti quei giorni sommersi nel vuoto più totale, nella noia, una dimensione ontologica prettamente soggettiva, certo; eppure si avverte un non qualcosa, che tuttavia ci appartiene. 

Ci rendiamo conto di essere proprietari di un vuoto tangibile ma non tracciabile. Il nulla. Uno status che si occasiona proprio da un momento di riposo, quando si è disincantanti dalla routine e dalle attività, quando tutto pare tacere. Ci avevano detto che avremmo avuto carta bianca per scrivere il nostro futuro; ora ci è consentito al limite di appuntare ferocemente i nostri sogni con una penna scarica. 

La saggezza caratteristica del tempo di crisi spinge a un ritorno alla propria interiorità, che sembra essere il più potente farmaco contro i virus di paure, cattiverie, ansie. Dinanzi ai problemi fondamentali, esistenziali, secondo Pascal, l’uomo reagisce abbandonandosi al divertissement, termine filosofico con il quale il filosofo francese indica il complesso di occupazioni, relazioni, intrattenimenti quotidiani e sociali, attraverso i quali l’uomo fugge dalla propria infelicità e dalle questioni più annose. 

La totale assenza di occupazioni, di passatempi, il riposo assoluto, è quanto di più intollerabile possa esserci per l’uomo. È infatti in simili circostanze, quando è solo con se stesso, che egli percepisce con spaventosa chiarezza tutta la sua nullità percependo l’indifferenza che il mondo prova verso egli, ignorando la misera natura umana. L’uomo riflette sulla propria natura e sulla propria condizione e allora prende atto del carattere drammatico e vacuo della sua esistenza. 

È la noia, l’angoscia, l’inquietudine, la melanconia e la disperazione. Nel momento in cui poi subentra la noia, l’uomo capisce di essere insufficiente a sé stesso. Vanno cercate qui le radici motivazionali che spingono l’uomo a lasciarsi stordire dal divertissement ponendo fine ai problemi fondamentali che implica l’esistenza.  Individuata la causa, occorrerebbe rintracciare anche una cura. 

E io direi, ma cosa te ne fai di una cura per il dolore se non ne puoi goderne nei momenti di sofferenza?  Eppure, per Pascal, non si tratta di trovare un antidoto che assolva dall’inconcludenza. Perché la noia non si cura. Dalla noia si fugge. Ecco perché l’uomo di Pascal è alla ricerca del chiasso, per non doversi interfacciare con quella stridula vocina che lancia un appello ai nostri dubbi esistenziali inappagabili. E così l’uomo tergiversa nell’intrattenimento futile, nel movimento, in tutto ciò che assordi e faccia rumore. L’oblio del sé, ecco il divertissement. 

Ma non facciamoci ingannare, il nodo della noia rimane ben stretto, quella stridula vocina è stata semplicemente silenziata. Sembra sia un concetto contrastante con quello che era l’otium latino, inimmaginabile per il filosofo francese. L’essere umano è incapace di stare a riposo, e piuttosto che l’appagamento interiore, l’otium procura nient’altro che una profonda angoscia esistenziale, cui cerca di rispondere con frenetiche occupazioni quotidiane. 

La noia, in questa inquadratura, non sarebbe un fatto positivo in quanto non fa che restituirci un’impressione di indeterminatezza. Al suo interno l’uomo si sente sperduto, disorientato, più vicino alla morte o semplicemente, a un senso assente. Ma se provassimo a pensare che il vuoto possa essere vissuto come significativo e che il contatto con l’indeterminato non vada sempre in parallelo con un azione riflessivamente performativa, la noia non ci appare più, allora, come l’anticamera della creatività, del produrre, come un vuoto denso, di noi stessi. 

Allora questa continua fuga da noi stessi, da quel che siamo, dalle domande ultime che dovrebbero abitarci in tutta la loro fecondità, questa continua “distrazione” della nostra anima finirebbe solo per impedirci di vivere veramente. Vero è anche che alcuni aspetti, rispetto ai tempi del buon Pascal, sono cambiati.  Ho sempre creduto che sia la strada verso un obiettivo che conferisca ad esso il suo significato, e la fretta di raggiungerlo, la fretta con cui spesso ci è concesso raggiungerlo, smonti quasi tutto il suo fascino. Si perde quell’ebbrezza che, seppur si sfuma, sfociando nei postumi della stanchezza e dell’impegno sudato, è più duratura e permette a meno del nostro tempo di poter dire “che noia”. Il fatto che riusciamo ad avere tutto e subito non è una scusa valida per la noia che proviamo, quanto più lo stancarsi di ricercare altri stimoli che giungerebbero con la stessa rapidità. 

Le cose da fare, si potrebbe dire, sono praticamente infinite: quello che ci manca forse è proprio la forza di volontà, e con essa il valore della fatica, la voglia di impegnarsi e di godersi la partita. E questa globalizzazione morale negativa fa sì che sia ancora più difficile ricevere stimoli. Annoiarsi diventa inevitabile. Se si evitano le situazioni che infondono emozioni intense e che sono motivo di ansia, si precipita ben presto nella famigerata noia. Se ci si sottrae alla fastidiosa monotonia tediante, ci si trova assaliti dall’angoscia che fa soffrire in forme ancor più acute. L’oscillare fra noia e angoscia riconduce alla radice comune dell’attesa. Sono una persona che cerca di impiegare il proprio tempo al massimo, anche un’ora buco, sono solita non buttarla. La locuzione “oggi non ho tempo” potrebbe essere la traduzione della mia immagine di copertina. La pandemia che sono costretta a vivere, in quelli che dovrebbero essere gli anni più belli della mia vita, inevitabilmente mi hanno fatta approdare in una nuova dimensione tutto tranne che dinamica. 

Sto esperimentando cosa sia la noia; ma non noia intesa come torpore dell’animo, oppressione soporifera. È impiegare il tempo con la mente, questa volta. Pensare, pensare, pensare. Pensare a come non buttare 24h moltiplicate per gli indeterminati giorni che costituiranno questa quarantena. Infondo, chi ha detto che in casa ci si possa annoiare solamente? Ho il mio pianoforte, la palestra, una libreria piena di libri che hanno riservato per me tutte le storie che io, ora come ora, non posso creare, vivendo come vorrei. Ho un terrazzo per guardare tutte le albe e i tramonti che le mie smanie di fretta mi hanno fatto perdere. Con meraviglia, ho scoperto di stare bene da sola. C’erano tante parti di me con cui non avevo mai avuto modo di presentarmi, sembrano brave persone. È senz’altro tutto così diverso che in alcuni momenti penso che i vestiti indossati siano troppo stretti per la voglia di vivere a 360° di una quasi diciottenne.  Come direbbe Pascal, non ci resta che scommettere. Ciò su cui scommetto in questi giorni che definirò “alternativi”, è sulla forza che sto avendo. 

Scommetto sulla mia caparbietà nel non dimenticare, un domani, cosa significhi svegliarsi e dover fare i conti con una lista piena zeppa di “no”. “No”, che per natura, non sono previsti. Ed è per questo che ora come ora la scommessa gioca un ruolo fondamentale, più del divertissement, secondo il mio modesto parere. 

Oggi, come ieri,  scommetto con il senso di sopravvivenza in questa realtà che vista dalla mia stanza è solo così tanto astratta. Scommetto contro questa mia visione limitata ma ostinata di vita. Scommetto perché è ciò che devo fare se voglio vincere, rischiare. Il Covid-19 mi ha insegnato a sfidare i miei ideali ad espandersi per cercare di essere migliore, sempre.

 

ADRIANA LANEVE

 


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