LIBERTA’ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS



La libertà è uno dei concetti su cui la filosofia ha intrecciato i propri veli per secoli, da Socrate che ha orientato la sua stessa vita su questo principio, e preferito la morte per difenderlo, passando per gli studiosi medievali, che hanno interpolato il significato ancestrale del termine introiettandolo in una dimensione puramente cristiana, come Agostino e Tommaso che si interrogavano sulla differenza tra libertà e libero arbitrio, fino a Hobbes, che ha negato i diritti dell’uomo in una società meccanicistica guidata da un Leviatano, e Locke, il fondatore del liberismo, lo strato più profondo della moderna società democratica in cui viviamo. È una parola che racchiude al suo interno una pletora di quesiti che continuano ad attanagliare, non solo i pensatori di tutto il mondo, ma tutti noi poiché ha in sé il paradosso del limite e si disegna solo per negazioni. 
Abbiamo riscoperto la nostra capacità di filosofare intorno ad un vocabolo che, forse deferenti delle definizioni sillogistiche delle grandi autorità del passato ormai perfettamente incastrate nel motore dell’educazione sociale, credevamo desueto, e che avevamo dato per scontato all’interno della comunità in cui siamo nati, ma che è tornato in auge, con tutta la sua protervia, nello stesso momento in cui è venuta a mancare, ossia quando il Coronavirus, un “veleno” , dal latino, totalmente nuovo e sconosciuto alla scienza, ha iniziato a insinuarsi silente nei corpi e ha costretto il Governo a varare dei decreti atti a ridurre al minimo il rischio di contagio: siamo confinati all’interno delle nostre case, non possiamo incontrare alcuno, la maggior parte delle attività commerciali è chiusa, con un danno ingente all’economia. Insomma, ci sembra che ci sia stata strappata la libertà. Essa è come l’aria, solamente quando inizia a mancare ti accorgi della sua importanza: i polmoni si contraggono per cercarla, la mente ripercorre i felici attimi in cui, senza neanche saperlo, respiravamo felici la purezza dell’ossigeno, comparandoli al presente funesto, in cui, invece, stiamo inesorabilmente soffocando. Così, la invochiamo a gran voce nelle ristrettezze in cui siamo ingabbiati e pensiamo senza sosta al momento in cui, finalmente, la riotterremmo e allora la godremo pienamente, e conserveremo per sempre, in un remoto angolo della nostra coscienza, quest’esperienza nefasta, come gli ex schiavi che nell’antica Roma ne portavano per sempre il nome,“ liberti”.
Ma a quale libertà facciamo appello in questa situazione?
Forse, nel corso del tempo, l’immagine di libertà è sfumata per lasciare spazio ad un’idea che si confonde con l’egoismo e l’egocentrismo: la società di mercato, di cui siamo profondamente orgogliosi, ci pretende tutti consumatori, sfrenati narcisisti indirizzati verso un paradosso esistenziale dominato da interessi aziendali e privati che hanno fatto della società di persone un mero mezzo di ottenimento di denaro.
È, quindi, la libertà che invochiamo, oppure una degenerazione di cui i nostri antenati non hanno potuto usufruire e che noi, non cogliendone a fondo l’importanza, abbiamo dato per scontato e manipolato a nostro piacimento fino alla costruzione di un sistema ingranato in modo concorrenziale anche sullo stesso individuo, isolato e iperconnesso? Perché,in una società così globalizzata che vive un progresso che penetra ogni spazio dei nostri giorni, dai social allo Smart working, ci sentiamo soli e spaesati ?
Il tema cogente di libertà, tornato alla ribalta a causa di un microorganismo così potente, viene quindi smascherato e si rivela essere semplicemente un bisogno eccessivo di essa che ci ha portato ad un’erronea interpretazione di questo valore fondamentale alla stessa natura umana. È pertanto inaccettabile parlare di “privazione di libertà”, ma piuttosto di un’astinenza da un comportamento che sta portando alla deriva la nostra società: la fuga da sé. L’uomo contemporaneo, in misura esponenzialmente maggiore alla denuncia operata nella seconda metà del 1600 dal filosofo francese Pascal, segue le orme di una ricerca sfrenata del divertissement per soddisfare i propri bisogni senza la volontà di guardare alla libertà degli altri, che si configura, in realtà, come un diritto della comunità in cui vive e afferisce alla dimensione di quella che, sia Hobbes che Locke, seppur in maniera diversa, chiamavano “legge naturale”. Ed è per questo che, in quest’emergenza in cui davvero vengono effettuate delle ristrettezze sociali, ci sembra di essere stati depredati della nostra identità, della libertà appunto, a causa dell’impianto egoistico che abbiamo assunto nei confronti dell’altro.
Siamo più che mai “Homo homini lupus”, capaci di lamentare delle visioni governative, tra le quali sì vi è un lockdown totale e massiccio controllo dei movimenti tramite tecnologie che presumibilmente si vedranno nei prossimi anni, ma che sono state implementate per il benessere della collettività: le misure del Governo cercano di congelare il diffondersi dell’epidemia, che potrebbe mettere in difficoltà le risorse sanitarie della nazione. Il rischio che ciò accada viene valutato secondo strumenti scientifici che appartengono alla statistica e all’epidemiologia. Gli esperti hanno valutato un grosso pericolo che deve essere evitato, ossia il sovraccarico delle risorse sanitarie a tutela di un bene, la vita dei cittadini italiani, e l’analisi di questa minaccia ha condotto a delle misure fortemente restrittive della libertà personale dei cittadini. Queste misure hanno una ricaduta non solo sulle vite personali, ma anche su una serie di pratiche e di istituzioni sociali, quali il lavoro, l’istruzione, la vita culturale, che sono oggi fortemente rallentate. Ma non per questo devono essere interpretate come un “furto di libertà” da parte dei Governi, piuttosto il frutto dello liberismo della nostra società, oltre che un apprendimento dagli errori del passato.
Come alcuni storiografi avevano bollato il Medioevo a “secolo buio” dell’umanità, noi abbiamo interpretato in maniera fallace il nostro secolo: crediamo sia l’abbandono all’edonismo, al consumismo, all’egotismo e alla vana gloria. Abbiamo perso la dialettica interna alla nostra vita, la nuda esistenza, ed per questo motivo che siamo tentati a credere che l’autodeterminazione ci sia strappata.
Ma non è così: il nostro compito è quello di indagare profondamente le radici della società democratica e scovarne i paradossi, senza impossibili paragoni con i regimi autoritari come la Cina che, in questo contesto epidemiologico, è riuscita a vincere la battaglia contro il virus operando delle limitazioni ancora più pressanti, ossia il convoglio dell’esercito nelle piazze. Analizzare la nostra società significa permeare a fondo il concetto di libertà che, da parte di molti, è meno importante della responsabilità sociale, ma che, secondo me, coincide con l’accortezza di ognuno di noi di preservare l’altro: è per la nostra salvezza che “abbandoniamo lo stato di natura”, in cui moriremmo miseramente vittime di una guerra infinita, ed entriamo nello “stato civile”, che non è l’espressione di una prodigalità eccessiva di libertà giustificata della percezione di “moderno” in cui viviamo.
 La libertà è un grande valore: quella umana -è qui che ,paradossalmente, ci distinguiamo da un virus che ha libertà estesa, conferita dalla natura, di esistere- però, non è mai assoluta, ma deve essere calata nei diversi sistemi sociali di cui ognuno di noi fa parte. Dobbiamo percepire il periodo che stiamo vivendo non come una restrizione, ma nell’ottica di un esercizio responsabile della libertà.
Se continuiamo ad uscire, ad esempio, in realtà non stiamo esercitando indipendenza, ma diventiamo solamente vittime della torbida schiavitù dai desideri e dagli impulsi irrazionali.
È veramente libero, non chi viola le norme, ma colui che sa disciplinarsi in funzione di un bene maggiore comune, che in questo momento, più di ogni cosa, è la salute.





                                                                                                                                             GIOVANNI BRADASCIO, 4B

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